Più che il nome di una divinità vera e propria (il nome non poteva essere pronunciato) questo era l’epiteto con cui indicare una delle divinità femminili più importanti, potenti e misteriose del pantheon romano, particolarmente venerata a Roma ma anche nel territorio di Aquileia, da cui provengono numerosissime attestazioni. Le testimonianze nel nostro territorio sono seconde come quantità solo a quelle del Lazio. Il culto si era affermato a Roma alla metà del I sec. a.C. e si era diffuso in breve anche in Italia centrale; era giunto poi ad Aquileia, in Istria e in Dalmazia nella prima età imperiale. Il culto si connotava inoltre come un culto misterico, solo per iniziate, e di esso non potevano essere diffusi i caratteri.
Il nome stesso, come afferma Cicerone “non deve mai essere conosciuto dagli uomini”.
I caratteri del culto della dea e i riti a lei connessi prendono origine dal mito così come riportato da vari autori antichi, secondo cui Bona Dea era l’appellativo con cui nel Lazio antico era chiamata la dea Fauna, moglie o figlia di Fauno, divinità entrambe legate al mondo agreste, alla pastorizia, alla fertilità in generale. Nel corso dei secoli la dea prese altre diverse connotazioni, e a questi aspetti originari si aggiunsero quelli di altre divinità dalle caratteristiche simili: Bona Dea assunse così anche negli aspetti iconografici come la patera, il corno dell’abbondanza e il serpente, gli elementi peculiari delle divinità a carattere salutifero come Salus o Igea, a cui si rivolgevano in particolare le giovani donne in procinto di affrontare la vita matrimoniale.
Secondo la versione del mito raccontata da Plutarco (50-120 circa d.C.), la dea Fauna venne sorpresa da suo marito Fauno a bere in segreto del vino e per questo venne picchiata a morte con rami di mirto. Un’altra versione del mito, quella di Macrobio (385-430 circa d.C.), narra invece di Fauna, figlia di Fauno, talmente pudica e casta da non aver mai conosciuto un uomo e da non aver mai voluto essere vista da uomini, che cercò invano di resistere alle avances del padre innamorato di lei. Fauno, dopo averla picchiata con un ramo di mirto e averla fatta ubriacare, si trasformò in un serpente e la violentò. Tutti questi elementi ritornano negli aspetti della ritualità legata alla celebrazione del culto della dea nel corso delle feste a lei dedicate.
Le fonti antiche, incomplete e non sempre attendibili, parlano delle modalità diversificate di celebrazione del culto che si svolgevano a Roma. Una festa era pubblica e si teneva ogni anno il primo maggio, nella ricorrenza della dedicazione di un tempio alla dea sulle pendici dell’Aventino. Il rito si svolgeva all’aperto, le donne erano ospitate in tende, coperte da rami di vite, erette nei pressi del tempio. All’interno del tempio si trovava quasi sicuramente una statua della dea accanto alla quale venivano allevati dei serpenti inoffensivi. Secondo alcuni autori venivano effettuati sacrifici animali, in particolare quello di una scrofa gravida o forse anche di una giovenca bianca.
Un rito privato era invece celebrato nelle abitazioni dei magistrati più importanti (consoli e pretori), dove le officianti erano le mogli o le madri di questi personaggi, e si svolgeva nei primi giorni di dicembre. Come a Roma, certamente anche negli altri centri urbani e negli insediamenti rurali si tenevano simili celebrazioni. Gli uomini erano assolutamente banditi dalle abitazioni durante il rito: essi non dovevano assistere ad alcun atto rituale né vedere alcun oggetto sacro.
Nelle celebrazioni private in casa partecipavano le matrone delle famiglie più importanti della città o del territorio; a Roma erano presenti anche le vestali, e il rito rivolto esclusivamente alle donne si svolgeva di notte. Le stanze adibite a tempio erano adornate con tralci di vite. Vi erano bracieri in cui si bruciavano offerte e incenso, si libava il vino che non poteva essere nominato ed era perciò chiamato “latte”. Similmente, i recipienti per il “vino” erano chiamati “vasi da miele”. Il vino non era utilizzato solo per le offerte rituali ma probabilmente era anche consumato dalle partecipanti. Queste sostituzioni di nomi così come l’assoluto divieto di introdurre rami di mirto negli ambienti del rito richiamavano l’origine mitica del culto della Bona Dea. La celebrazione era accompagnata da musiche, giochi e danze.
All’interno delle numerose versioni del mito alcuni elementi sono tuttavia ricorrenti: l’assunzione eccessiva del vino e la punizione da parte di un uomo con rami di mirto. Questo spiega perché il rito prevedesse l’esclusione del mirto dagli ambienti in cui si officiava il culto, e la presenza del vino sotto falso nome. Inoltre l’accento sulla castità della dea spiega l’esclusione assoluta degli uomini dalle cerimonie.
Alle feste in onore di Bona Dea potevano partecipare sia donne libere sia schiave affrancate (libertae).
Per approfondire:
BAKKERJ.Th, Living and Working with the Gods. Studies of Evidence for Private Religion and its Material Environment in the City of Ostia (100-500 AD), Amsterdam 1994.
BROUWERH., Bona Dea. The Sources and a Description of the Cult, Leiden 1989.
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MASTROCINQUE A., Religione e politica: il caso di Bona Dea, in Politiche religiose nel mondo antico e tardoantico. Poteri e indirizzi, forme di controllo, idee e prassi di tolleranza, Atti del convegno (Firenze, 24-26 settembre 2009), in «Munera» 33, 2011, pp. 165-172.
MASTROCINQUE A., Bona Dea and the Cults of Roman Women, Stuttgart2014.
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